Analista della condizione umana, quella di Soravia non è una visione drammatica bensì l'immagine di una situazione individuale che azzera ogni differenza sociale, etnica o d'altro segno.
Consapevole accusa all'esasperato individualismo dei nostri tempi, divenuto un fenomeno endemico indiscriminato.
Per Soravia, che gli umani si riuniscano in eserciti o vaghino desolati nello spazio-mondo, sono sempre soli.
Marciano a schiere compatte senza meta; girano in tondo senza scopo; ogni individuo è separato dal prossimo per la propria incapacità di comunicare.
Eppure le masse godono di efficienti organizzazioni sociali e associative, che l'artista simboleggia con forbiti cilindri, piramidi, cubi, coni - le forme rassicuranti dei "perfetti" solidi geometrici - sui quali si sostengono i gruppi, apparentemente ordinati in schemi di marcia ben predisposti, ma che tornano sugli stessi passi, invariabilmente, inutilmente.
Pochi artisti possiedono tanta capacità di evidenziare così serenamente la condizione umana, senza enfasi, con un senso di compatimento e di partecipazione così vivo, e che con simile essenzialità e "povertà" sanno disporre in modo altrettanto convincente i dati di un'analisi che, pur essendo scettica, non mostra alcun segno di retorica o di moralismo.
Ma è il caso di precisare che essenzialità e povertà di mezzi tecnici sono un dato determinante nella poetica di Soravia, infatti egli nasconde la sua abilità: basti pensare invece a quale miracolo manuale corrispondano l'esattezza e l'espressività dei suoi uomini, alti circa due centimetri e che lasciano intravvedere una sapienza esecutiva incredibile per tanta minuzia.
Il fatto che il suo universo sia espresso in dimensioni minimali, le sue immagini men che lillipuziane, toglie enfasi ai temi e alle sensazioni che in realtà, se non drammatici, sono apocalittici e profondamente coinvolgenti, e che da una distanza di pochi centimetri già appaiono minimi e trascurabili ma che possono invece coinvolgere come epica e tragedia: è come una guerra di formiche alla quale si presta attenzione solo casualmente se ci si imbatte, distesi su un prato, a osservarne lo svolgimento.
Forse Soravia vuol dimostrare come al cospetto della Natura le immani tragedie delle masse, o i drammi esistenziali dell'individuo abbiano la stessa importanza, o nessuna: la Natura è indifferente alle une e agli altri.
Ma la realizzazione in così deliberata minuta può voler anche segnalare l'intenzione di sdrammatizzare il gesto artistico, riportarlo alla radice artigianale originaria, togliere sacralità al linguaggio estetico, ritrovare una ragione intima, rituale, profondamente soggettiva, abolire lo stentoreo e - riferitamente al linguaggio plastico - negare alla scultura la strutturale dannazione monumentalistica.
Al di là di ogni valutazione bisogna riconoscere a Soravia di essere un autore controcorrente, singolare, solitario, che produce opere di aspetto grandioso in scala lillipuziana.
Ma è anche un narratore malinconico delle recite solitarie nei teatrini deserti, il cantore dei voli, silenziosi, dei gabbiani, l'evocatore amaramente divertito degli atteggiamenti e della gestualità umana, dei suoi silenzi e delle sordità.
E da queste insondabili distanze che separano gli umani l'artista indica le contraddizioni, la separatezza e l'inerte accettazione dell'omologazione azzerante delle individualità che inducono l'uomo a considerare tristemente come la progressione numerica tra gli abitatori del pianeta e il successo tecnologico lo rendano sempre più solo, sempre più conflittuale con l'ambiente e coi simili.
Scultore e ceramista Soravia ha sempre sentito particolarmente la vocazione del colore differentemente dalla maggior parte degli artisti plastici. E per questo motivo esiste una sua produzione parallela che lo impegna come pittore. I suoi quadri si pongono autonomamente, anche mantenendo la similitudine simbolica e l'aura poetica delle sue ceramiche e sculture.
L'atmosfera metafisica, nei dipinti, è vieppiù accentuata, si dichiara esplicitamente con la sua inconfondibile malinconia silenziosa.
E le parabole dell'omino-massa s'inteneriscono al cospetto della grandiosità della Natura. Qui si vede bene come, dopo tutto, Soravia non abbia intenti moralistici ma preferisca raccontare con trepida simpatia una propria scelta di campo accanto a questo omino, a quei minuscoli eserciti che non sanno, o a meravigliarsi per la solare apparizione di un albero, l'abbagliante magnificenza di un cielo sotto il quale si possono anche organizzare girotondi e essere felici senza essere qualcuno.
[...] Lo studio dal quale egli osserva la condizione umana per poi riferirla in modelli plastici, in mappe scalari da sottoporre alla nostra eventuale meditazione, è situato e nascosto in una mongolfiera. Certamente è da un «lassù d'astronave o di pallone frenato che la cieca rissa umana si riduce in attonito, risibile, angosciante e straziato termitaio. Certamente solo da un sublime, distaccato ed aereo confine l'orgoglioso teatro planetario svela il suo fondo calcinato, la sua vana e crudele realtà di minerale cieco e monocromo percorso da monocrome e insensate forme: farneticanti grappoli di insetti, fulminate solitudini, aberranti formicolii. Da lassù la mischia è senza voci, senza suoni: un siderale silenzio avvolge gli incongrui e iterativi gesti dei minuscoli attori, le loro antenne, le loro élitre affannosamente intente a costruire miserabili errori, a percorrere meschini labirinti di vanagloria. Dal suo altissimo osservatorio, minuzioso come uno scriba, Soravia traduce in plastici geroglifici i punti salienti dell'assurdo spettacolo che gli infimi protagonisti chiamano storia, progresso, civiltà, via di redenzione.
[...] I protagonisti del grande teatro di Soravia sono infatti gli umili, i poveri, i minacciati, gli indifesi, ma soprattutto la folla, considerata nelle manifestazioni corali della sua esistenza come nel cerchio di un baluardo naturale. Queste immagini sentano a capire la vera poetica dell'artista. Guardare le vicende umane dall'alto è già per Soravia un modo di indicare che egli intende almeno idealmente stringere tutte le creature in un unico affettuoso abbraccio. Vederle quando formano una folla, quando sono allacciate nella stessa azione dai fili dell'esistenza, vuoi dire che stare insieme, e tenersi per mano, e partecipare allo stesso rito, sono modi istintivi di garantire la sopravvivenza.
[...] È proprio vero, le cose semplici sono sempre difficili da spiegare, diceva Matisse per cui non è facile davvero stringere per l'arte di Soravia un discorso che va fatto sulla scultura, per il suo specifico, e condotto, poi, in una sorta di aggiornato, emblematico neoplatonismo che riguarda certo alla espressività artistica fissando con le finalità estetiche quelle della morale. Nel senso dell'attonita osservazione del sublime e, forse, religiosamente, dell'inattingibile.
[...] Sandro Soravia consegna ai suoi mini-personaggi l'interpretazione dell'idea iniziale: quella per cui l'universo che ci attende non escluderà in alcun modo lo spirito che è in ciascuno di noi e che ci fa diventare «massa» soltanto nel rispetto della nostra individualità: e con la quale qualsiasi mito e qualsiasi scoperta scientifica collettiva dovranno fare i conti.
Di lui hanno scritto inoltre: Mario De Micheli, Carlo Villa, Aureliano Ferrucci, Michele Pietrantoni, Dino Villani, Stelio Tomei, Enzo Aprea, Guido Arato, Mario Penelope, Giancarlo Angeleri, Mario Panernostro, Luciano Caprile, Gianfranco Bruno, Emilio Sidoti.
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